Anno Sociale: 2017 – 2018

I Martedì di San Domenico
Martedì  30/01/2018
Ora evento:
21.00


Seneca c’era una volta il tempo

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La cultura classica, caratterizzata dalla visione ciclica del tempo  e dall’assenza di speranza, a fronte della novità cristiana, caratterizzata dalla visione lineare del tempo e dal messaggio della speranza; la riflessione senecana sul tempo identificata con la meditatio vitae e soprattutto con la meditatio mortis; il sacrificio del presente sull’altare del futuro e dell’avvento dell’uomo nuovo affidato all’illuminismo e alle varie ideologie infuturanti della modernità; la delusione cocente alla fine del secolo scorso per il fallimento delle utopie e il ritorno alla dimensione del presente da vivere e possedere; e, ora, l’insoddisfazione per un presente più subìto che vissuto, e soprattutto lo smarrimento e il disagio per la perdita della dimensione del tempo come memoria e come progetto: una dimensione sfrattata dalla signorìa dello spazio. Un deficit, quello del tempo e della storia, il cui prezzo maggiore è pagato dalle nuove generazioni che riducono la vita a unica proprietà dei viventi e non anche dei trapassati e dei nascituri. Riflessione fondamentale e per noi urgente, quella sul tempo, a fronte della duplice e concomitante rivoluzione: la rivoluzione tecnologica dei media digitali che ci trasforma in planetari per lo spazio ma – come ci ammoniva Eliot – “provinciali” per il tempo, e la rivoluzione sociale dell’immigrazione che – con l’affermarsi imperioso dei due fattori della geografia e della demografia – soppianta il primato europeo ed eurocentrico della storia. In queste condizioni l’Occidente sembra più che mai scontare la propria identità linguistica e davvero rivelarsi come “il Continente che tramonta” a fronte dell’Oriente, “il Continente che sorge”. In questa prospettiva non è difficile immaginare che tra cento anni, quando sarà fatta l’Europa, gli Europei non ci saranno più.

Di questo parlerà con la lezione Seneca: c’era una volta il tempo il Prof. Ivano Dionigi, filologo classico, Presidente della Pontificia Accademia di Latinità e Direttore del Centro Studi La permanenza del Classico dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna della quale è stato Magnifico Rettore dal 2009 al 2015.

Vorrei svolgere questa lezione seguendo lo schema canonico della retorica classica, che aveva un triplice fine: affascinare,(“delectare”), convincere e docere ed era scandita secondo una  ben precisa struttura: un proemio,o esordio, lo stato della questione, l’enunciazione della tesi, lo svolgimento della tesi per argomentazioni, corredate da esempi, ed infine la conclusione. L’esordio:  quello del tempo è per tutti un tema centrale, complesso e anche spaesante, che per me si tinge di un colore particolare per due motivi: primo, perchè io mi occupo di una lingua e di una cultura che arretrano nel tempo di oltre 25 secoli; questa lingua che è madre certissima della lingua italiana. Poi , per un secondo motivo: perchè appartengo ad una istituzione millenaria  che dà del tu alla storia, l’AlmaMater, che ha nel sangue il miracolo del tempo, che ti fa provare il brivido del tempo. Ecco, io questo brivido del tempo, della storia, l’ho avvertito nel giugno del 2015. Molti presenti si ricorderanno: il terzo week-end di giugno di quell’anno, durante I giorni di Reunion, quando si è svolto il primo raduno  mondiale dei laureati dell’AlmaMater, quando idealmente c’eravamo tutti: I laureati di ieri e di oggi, da Thomas Beckett a Pico della Mirandola, da Leon Battista Alberti ad Erasmo, da Copernico ad altri nomi illustri del passato, fino ai tempi più recenti. C’eravamo tutti, allora c’era anche Umberto Eco, era presente idealmente anche il mio predecessore, Pier Ugo Calzolari: tutti presenti, fino ai giovani freschi di laurea. Questo non è tempo? Il tempo mi ha allevato, mi ha custodito e mi ha gratificato. Io al tempo devo non solo  la fascinazione della ricerca intellettuale, ma anche il sentimento della gratitudine perchè in alcuni momenti mi ha donato la percezione di averlo incontrato. E’ un tema poliedrico, ma io  non parlerò del tempo in senso filosofico, non è il mio mestiere, io sono un filologo. Non parlerò della concezione del tempo, o meglio delle diverse concezioni del tempo secondo la fisica e neppure del tempo come tappe della vita, e della storia con le sue pietre miliari: la scrittura, la stampa, poi il tempo digitale. Io parlerò di una precisa concezione del tempo: per questo ho messo Seneca nel titolo, un segmento della cultura classica e un particolare aspetto: l’esperienza individuale del saggio perchè credo che essere saggi sia e debba essere l’aspirazione di ognuno di noi. Lo Stato della questione,vorrei distinguere tra Roma, dove tutto è scandito sotto il segno del tempo “sub specie temporis” ,  ed Atene dove tutto è “sub  specie aeternitatis”. L’ha sintetizzato bene un grecista, Carlo Diana,  quando ha detto che Roma è nel segno dell’evento, Atene nel segno della forma. La teoria greca contrapposta alla Temporalitas latina, una temporalitas che possiamo documentare nei diversi aspetti che questa lingua ci consegna. Prendiamo ad esempio l’architettura: guardiamo la Colonna Traiana, a Roma, è un racconto. L’architettura greca, no: il Partenone, le statue di Fidia, appartengono ad un’altra dimensione. Prendiamo la religione: a Roma sono tutte divinità dell’istante, che scandiscono le tappe della vita dell’uomo  e delle stagioni dell’anno, è una sorta di religione temporanea. L’Olimpo Greco è costituito da dei antropomorfizzati che riproducono I capricci degli uomini. Prendiamo il diritto: il diritto greco è legato ad alcune figure mitiche, tra cui Licurgo, poi quelle storiche come Solone e Pericle; era un diritto legato alle persone. Il diritto a Roma è un “opus commune et perenne”, di una comunità , che dura negli anni e ne sappiamo qualcosa noi europei. Prendiamo la lingua: il Greco è una lingua nominale, il Latino è una lingua verbale, che fa perno sul verbo. Il verbo è il titolare  rappresentante del tempo, angelo del movimento che dà spinta alla frase – come ha detto Baudelaire. Forse tutti ricordiamo la “consecutio temporum” e in fondo che cos’è? E’ vedere  tutto in relazione temporale, un prima, un poi, un durante, tutto correlato nel tempo, tutto nel segno del tempo. E’ una lingua metamorfica, che cambia  a seconda dei giorni e del tempo. Questa lingua , che ha generato le altre lingue, dal Mar Nero all’Atlantico, che per oltre venti secoli è stata la lingua  delle tre grandi sfere: la Religione – l’Ecclesia – la Politica – l’Imperium – lo studio, la scienza – lo Studium. Io sto parlando, stasera, una sorta di dialetto latino, niente altro. Quando Goethe sentiva suo padre che insegnava l’italiano alla figlia diceva: “ho capito che l’italiano è un’allegra deviazione  del latino”. Da parte di un filologo classico , sarebbe da intrattenersi su questa lingua ricca di vocaboli per indicare il tempo, I nomi del tempo. Io mi limiterò a ricordarne alcuni in fretta. Il tempo, cos’è il tempo: è una “portio aeternitatis”, il tempo è un istante, un giorno, un’ora, un mese, un anno: è una porzione. Poi parliamo di Evo e di aetas e questo è già un tempo di durata illlimitata. Pensiamo a “seculum”: seculum vuol dire generazione; siccome la generazione degli uomini, degli animali era identificata in cento anni, allora secolo è il significato derivato, secondario. Prendiamo “momentum”; il momentum è l’istante, deriva dal verbo moveo, è la misura più piccola del tempo, è quell’unità di misura che derivava dall’impulso dato dal peso messo sopra la bilancia dell’orafo; quando la bilancia scattava, quello era il momentum. Che differenza c’è tra momentum e istante? L’Instans ha lo stesso significato, ma deriva da  “insto”, è qualcosa che ti sta addosso, che ti incalza e ti minaccia. E giorno? Giorno noi lo chiamiamo Dies e la notte dov’è finita? Dies vuol dire la luce, siccome la “pars melior” del giorno  è la luce il dies ha divorato anche  la notte ed indica un intervallo di tempo di ventiquattro ore. Ma passiamo al quadro linguistico del Greco, qui il lessico si arricchisce e diventa ancor più seducente. Ci sono tanti nomi per definire il tempo, io mi limiterò a due: perchè il tempo anche in Greco è così difficile da nominare? Forse perchè il tempo, per ciascuno di noi, è come lo descrive Sofocle quando ad Edipo fa pronunciare questa definizione stupenda: “Kronos macros xinom”, che non  significa “il tempo lungo che ho vissuto”, ma il tempo che è qui con me, mio compagno, mia ombra, mia scorta”.E questo è fatica capirlo. Io  accennerò a  due nomi del tempo: Kronos e Kairos: Kronos, con la K traslitterata in ch, è l’arcinome greco del tempo, da cui cronico, cronaca, cronologia, diverso da Kronos con la K che è Krono, padre di Zeus. Per questa sorta di vicinanza di scritture e di suoni tra Chronos con la K traslitterata in Ch e l’altro Kronos con la K, c’è stata una sorta di corto circuito per cui come Krono ha divorato I suoi figli, così Chronos – tempo divora noi. Poi c’è Kairos, che è intraducibile; dice Esiodo che è la migliore di tutte le cose; è il tempo giusto, è il momento propizio, l’opportunità, l’occasione, la chance della vita. E’ una dimensione temporale, spaziale che non  ha regole, non  ha leggi, che, semplicemente, ti capita, però è da cogliere, da non perdere, un incontro felice con un libro, un’idea, un evento, una persona. Colto, o, ahimè, mancato. Quello è il Kairos. Infine, sempre attinente a questo stato della questione,  un altro aspetto capitale che un filologo classico potrebbe trattare è quello della circolarità del tempo classico rispetto a quello lineare che è tipicamente cristiano. Il tempo classico – lo dice già Aristotele –  è un cerchio: l’età dell’oro, dell’argento, del bronzo, del ferro; questa ripetitività contrapposta alla linearità del tempo giudaico e cristiano, segnato da due cesure: una, quella della crezione , l’incipit,  e l’altra, quella del cristianesimo, dell’incarnazione  e morte di Cristo; e da allora c’è un prima e un poi:  “ante Christum” e “post Christum”. Ma vorrei puntare la mia attenzione soprattutto su Seneca, non il Seneca scienziato che ha interessato sia Goethe che Leopardi, non il Seneca tragediografo che ha influenzato Shakespeare e  impressionato Eliott, non il Seneca politico, il consigliere, il ministro di Nerone che ha appassionato tanto Diderot, ma il Seneca delle Epistole morali, quello di Dante. Seneca al tempo dedica una parte delle Epistole, iniziando subito dalla prima , poi scrive un dialogo dedicato al tempo, intitolato “La brevità della vita”, dove campeggia questo imperativo categorico: “vivi il subito, vivi il presente, vivi adesso”. Questo dialogo è costruito sullo schema della causa giudiziaria: c’è un’accusa apportata – dice Seneca – non solo dal volgo sciocco, ma anche da un filosofo come Aristotele, I quali accusavano la natura  di malignità, la natura matrigna che agli animali ha dato tante generazioni di vita e a noi, nati per così alti destini, ha dato un  tempo così breve; questa è l’accusa che viene fatta contro la natura che è stata così avara di tempo. Seneca si erge a difensore e dice: no, la vita non  è breve, la vita, se la sai usare, “longa est”. Noi non abbiamo poco tempo – dice Seneca – ma ne abbiamo perduto molto. Non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi così perchè siamo dei cattivi padroni e non dei bravi amministratori del tempo della vita. La prova – ecco la fenomenologia della nostra vita – vita di occupati. Seneca contrappone  gli occupati, affaccendati, noi con una parola un po’ colorita potremmo  dire gli “alienati”, li contrappone ai saggi, ai “sapientes”. Siamo vittime dell’avidità insaziabile, lo zero inutile, il bene, l’ozio, l’ambizione politica, la mania della guerra, il servilismo goffo, la preoccupazione per la bellezza, le smanie di cambiamento, la noia. Nessuno rivendica per sè la sua libertà; Seneca lo dice con un termine giuridico: “Nemo se sibi vindicat”, nessuno rivendica se stesso,  nessuno appartiene a se stesso. Se vogliamo fare un bilancio, questo dialogo è intessuto di tutti termini economici, propri della contabilità. E’ decisamente in rosso – dice Seneca – calcoliamo il tempo sottrattoci dai creditori, dai padroni, dai clienti, dalle donne e dai litigi con le mogli, dai castighi dei servi, dalle malattie, da un vano dolore, da una stolta gioia, da un’arida passione, da un’allegra compagnia,  capiremo quanto poco tempo è rimasto per noi. Si diverte, Seneca, con una certa ironia, a fare la caricature, l’identikit  degli occupati: l’effemminato, sempre affaccendato tra pettine e specchio, il collezionista, il cappellone, il fanatico delle canzoni, il giocatore di pallone, il giocatore di scacchi, l’abbronzato, lo sportive e, ahimè, il filologo, colui che si accanisce nello studio per vivisezionare particolari inutili. L’abbiamo sentito questo tema del dissipare il tempo, c’è tutto un capitolo  proprio disseminato di parole che iniziano col prefisso “dis”: discorrere, distribuire, disperdere. Invece, per coloro che conducono una vita lontana da ogni faccenda, niente viene affidato ad altri, niente è sparpagliato qua e là, niente è affidato alla fortuna, niente è perduto per inerzia, niente è dissipato per prodigalità, tutto è messo a frutto. Cosa sta alla base del tempo per Seneca? Ci stanno questi due elementi:la concezione qualitativa del tempo e la signoria del presente. Seneca dice di un tale che non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo; c’è una bella differenza fra vivere e stare al mondo. Devi riflettere non quanta vita hai vissuto, ma quale “Non quanta, sed qualis”. Importa quanto bene vivi, non quanto a lungo. Qui è proprio la vittoria dello stile. Il bene della vita consiste non nella sua durata, ma nel suo uso. Una mente saggia sa che non c’è nessuna differenza tra un giorno e un secolo; è un punto quello che viviamo, addirittura meno di un punto. Seneca contrappone l’occupatus al sapiens, l’affaccendato ha un rapporto malsano con il tempo: non vuole ricordare il passato perchè l’ha male impiegato e ne teme la memoria, il presente lo trascura perchè è troppo affaccendato per occuparsene e il  futuro è l’oggetto della paura. Gli occupati, quindi, dimenticano il passato, non curano il presente e temono il futuro. L’occupato è uno che non vive, ma sta al mondo; il sapiens, invece, ha un’esperienza autentica della vita. Lui ha la ratio, lui non si fa scompensare e turbare, lui non prova passioni e turbamenti; tutto quello che deve avvenire è incerto e allora vivi senza indugio, vivi subito, vivi il presente. Il tempo è passato, tu lo blocchi, saggio, col ricordo. Il presente  urge, ti sta addosso, usalo; il futuro, pregustalo. Il Sapiens cosa fa? Concentra  tutti I tempi In uno; lui solo è libero dalle leggi dell’umanità perchè il sapiens, per Seneca, tende ad essere come Dio, anzi, dirà altrove, superiore a Dio perchè mentre Dio non può  soffrire, il sapiens prova anche la sofferenza. Il sapiens stoico sperimenta l’unità, la continuità, la simultaneità del tempo, vive l’indipendenza dal tempo fino al paradosso che si ritiene lui regolatore del tempo; il vissuto è atemporale e solo il presente esiste. Perchè questa centralità e acuzie del tempo in Seneca? Perchè – lo ha detto bene Maria Zambrano – scoprire il tempo significa scoprire l’inganno della vita, il suo ultimo tranello. Seneca ha identificato la vita con la “meditatio mortis” e ci ha consegnato una vera “ars moriendi”, una tecnica di come vivere e soprattutto di come morire. Sentite il capitolo ottavo de “La brevità della vita”: “Nessuno ti renderà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso, andrà il tempo della vita per la via intrapresa e non tornerà indietro, nè arresterà il suo corso. Non farà rumore, non darà segno della sua velocità, ma scorrerà in silenzio”. In Seneca c’è forte, centrale, questa idea della compagnia – dirà poi Jean Cocteau – della coabitazione con la morte, la concezione della sua azione lenta, continua, inesorabile. “Cotidie morimur – dice Seneca – noi moriamo ogni giorno. Questa stessa giornata che stiamo vivendo, la dividiamo con la morte, come l’ultima goccia che cade a vuotare la clessidra, ma tutta l’acqua è scesa prima , così l’utima ora che segna la fine , non causa da sola la morte, ma da sola porta a termine l’opera. “Mors carpit nos, non corripit”. In latino, carpere è un verbo del linguaggio agricolo che significa cogliere il petalo della rosa, la foglia del carciofo, il chicco dal grappolo e allora la morte ci sfoglia, ci assottiglia poco a poco, minuto per minuto. Il messaggio senecano non ha incertezze: si può ricapitolare così: vivi subito, vivi adesso. Tu sei capace nel presente di concentrare tutto, l’istante equivale all’eternità ed esiste solo il presente. Il passato lo recuperi con la mente, il futuro lo  pregusti. “Tempus praetiosissima res” perchè soltanto il tempo è cosa nostra. Platone diceva che il tempo è prerogativa degli uomini liberi, è garanzia di libertà.”Gli uomini liberi – dice Platone – hanno sempre tempo a disposizione, gli altri , invece, quelli che si aggirano per tribunali e altrove, parlano sempre con scarsa disponibilità di tempo perchè l’acqua della clessidra, scorrendo incalza. Non è forse vero che chi ha scarsa disponibilità di tempo è chi non fa niente? Spesso, se chiedete qualcosa a  qualcuno che è molto impegnato, ve la fa subito, se lo chiedete a chi fa poco o niente, vi dirà che non ha tempo. Pensateci un attimo, ma è così.  Ecco,  il tempo è la cosa più preziosa e solo quello abbiamo noi. E’ l’unico possesso che abbiamo  e allora quale regalo più bello che dare del proprio tempo a una persona, invece di regali effimeri, inutili, riciclati e riciclabili?  Il tempo è la cosa più personale, forse più dell’amore. Questo messaggio senecano come è stato recepito? Questo messaggio, caratterizzato da questa concezione ciclica del tempo e dall’assenza di speranza, parlerà poco al cristianesimo che fa propria la concezione lineare del tempo e introduce il concetto di Speranza. La speranza era un valore negativo per I classici, per lo stoicismo. La speranza è un dolce inganno – dice un frammento  quasi sicuramente di Seneca – è un  incantesimo, una droga, un placebo. Questa teoria di Seneca parlerà invece all’uomo rinascimentale,. All’umanista: uno su tutti, Montaigne. In pieno ‘500, quando Montaigne, consigliere del parlamento di Bordeaux, ex sindaco di Bordeaux, decide di uscire dalla scena politica, da quel gioco collettivo che è la vita politica e sceglie lo spazio inaccessibile alle menzogne del mondo e lo chiama il retrobottega e allora riempie le sue pagine di espressioni senecane con due teoremi senecani: la stessa preoccupazione dell’uso del tempo e la stessa mobilità del presente. Quindi l’uomo rinascimentale lo riprenderà. E l’uomo moderno? All’uomo moderno il Dialogo di Seneca non  parlerà più perchè l’uomo moderno avrà come valore il progresso e come habitat naturale il futuro nel quale si iscrivono l’ideale scientifico e l’accrescimento del sapere. Le ideologie della modernità sono tutte tese verso le magnifiche sorti progressive che sacrificheranno il presente sull’altare dell’avvento dell’uomo nuovo, sia che sia l’uomo nuovo del cristianesimo annunciato dalla Rivelazione, sia l’uomo autonomo della ragione.Le ideologie moderne adotteranno il concetto cristiano di Speranza; ma quel comandamento senecano “vivere il presente”, ignorato dal cristianesimo, ripreso dall’umanesimo, rimosso dai moderni, torna attuale e quasi consolatorio negli anni ’80 e ’90. Quegli anni presero atto del fallimento di tutte queste ideologie futuranti che ci lascìarono addosso delle ustioni che ancora portiamo e allora ci apparve amichevole, confortevole, tornare a vivere il presente dopo aver scommesso tutto sul futuro, poi I viali del futuro si sono improvvisamente ristretti e accorciati e il presente ebbe la sua rivincita. E ora? Noi ci troviamo di nuovo a interrogarci sul presente, come spaesati per perdita di senso e assenza di prospettive e magari a condividere l’idea di chi prende le distanze dal tempo e osa scrivere che il presente non basta. Cos’è successo? Solo fino a 25 – 30 anni fa tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo. E’ accaduto che noi, a differenza di Seneca, non possediamo il presente “Carpe diem”, ma ne siamo posseduti. Siamo diventati non soggetti, ma oggetti del tempo, schiacciati sotto il suo tallone. Ci siamo trasformati – direbbe Chateaubriand – in uomini del momento, in servitori della moda. Cos’è accaduto? E’ accaduto tanto, è accaduto tutto, è stata gettata l’immensa rete del Web. Conseguenza? Il tempo oggi si riduce per la nostra bulimia di spazio. Tutti giganti  planetari per il web, qui, ovunque e in ogni istante. Mutilati e assediati, irretiti, dannati da un eterno presente dalla chiacchiera, della dittatura del “si dice”. Frequentatori di questo bar mondiale che è diventato Internet dove – come ha ricordato Umberto Eco – legioni di imbecilli si danno appuntamento e dove il Nobel e lo scemo del villaggio pari sono.  Alcune volte mi viene da dire: “Imbecilli di tutto il mondo unitevi!”  Questo non significa assolutamente che io sia contro la tecnologia. No, tecnologia è una delle parole più belle che ci siano perchè deriva de Tecne (latinamente ars) e logos (parola, ragione); io chiedo solo se questa è tecnologia o tecnocrazia. Noi, di fronte a questi strumenti creati da noi, abbiamo sviluppato alcune prolunghe a tal punto che questo Prometeo che è in noi è diventato più potente tanto che ne proviamo vergogna. Questa tecnocrazia che rende il mondo meno giusto e libero e anche meno pulito. Pensiamo ai giovanissimi, cosa scontano In questo mondo. Ecco, le prime vittime sono I nostri giovani cui abbiamo staccato la spina della storia, per I quali questo unico, eterno, indifferenziato, pervasivo presente è un gas nervino. Un filosofo moderno, un coreano che insegna a Berlino, ha detto: “Qui siamo di fronte all’inferno dell’uguale”. Viene da chiedersi dove è finita la ricchezza della diversità, il pathos della distanza: stessi vocaboli al posto delle parole, stessi slogan al posto dei pensieri, stessa moda al posto dello stile. Ma non li sentite che non hanno più di 50 parole? Siamo livellati, ci hanno piallato, forse è venuta l’ora di scostarci un attimo, di tirarci un po’ da parte, diventare tutti un po’ clandestini, di fare una secessione interiore, non quella esteriore.. Tutta faccia e interfaccia: che parole sono? Sono parole al silicone, di plastica, di cartone, sono parole di niente, è il sapere ridotto ai polpastrelli. Il volto che fine ha fatto? Soppiantato dalla faccia: Il volto, il metronomo della nostra anima, della nostra anagrafe interiore ed esteriore. Io sono un appassionato della fisiognomica, credo che sia l’unica scienza saggia; il volto che ritma e misura la gioia, la compassione, la speranza, l’età, il tempo; il volto irripetibile e miracoloso di un bimbo, di un vecchio: il volto. La conclusione, il quinto momento di questo nostro schema retorico. C’è poco da concludere: semplicemente tre brevi riflessioni: 1° Lo ha scritto  (e ripetuto tre volte) in una sua enciclica, anche Papa Francesco, che il tempo è superiore allo spazio. Come interpretare questo? Lo spazio è statico, lo spazio è la sommatoria  delle forze del potere in atto, il tempo è dinamico, ha in dote due vettori che arricchiscono, nobilitano e allungano la vita: la memoria che ricorda; nella vita non è possible annullare  l’ultima operazione come nell’informatica. E   quello del progetto che ci ammonisce. Cosa ci dice questo tempo che di quel patrimonio, di quel capitale che è la vita, le azioni  non le deteniamo solo noi, ma anche I trapassati, I genitori, I nonni, gli avi ed I nascituri. Questo è il segno della memoria e del progetto del futuro. Il futuro che è segno dell’imminenza della destinazione delle intenzioni. La seconda osservazione: l’umanità , la storia   vive  (parafrasando Bacon) non della tremula fiaccola del singolo, ma della lampada forte, questa trasmissione delle lampade, delle fiaccole di generazione in generazione: la tradizione , “trader”, consegnare, ma la tradizione non è la venerazione delle ceneri, ma la salvaguardia del fuoco. E’ una delle parole più belle, perchè vere e vitali. Bisogna andare oltre la nostalgia cadaverica del  passato, di chi ha lo sguardo indietro e di ogni furia futuristica, di chi ha il paraocchi; anche tuttta questa discontinuità vuol dire negare la vita, negare se stessi. Poi tutti fanno I discontinui con la cosa pubblica, con le cose degli altri, ma nella loro vita c’è un continuismo perfetto. E allora?Ci sarà un problema o no? Solo così si può fare la “pars construens”. Qui non si può più scherzare. Eravamo qui l’anno scorso in gennaio e abbiamo parlato della parola e la politica. Questo piano come vi sembra. A me sembra un  pochino inclinato rispetto ad un anno fa. Terzo punto: la questione per me oggi si reduce a questo. I classici, I padri, I maestri, la tradizione rappresentano il “notum”: ora, però, abbiamo quello che I latini chiamavano l’inaudito, il mai visto, quello che fa irruzione, il mai sperimentato e l’arrivo degli extracomunitari – e siamo solo agli inizi, e in mezzo ci stanno I nostri giovani. Il problema oggi credo che sia “pacificare”, fare coabitare le risposte dei padri con le domande dei figli, far coabitare il passato, le tradizioni, con il mai sperimentato. In questa distensione del tempo presente convergono e convivono il patrimonio consolidato di ieri e i semi germinali di domani che non si vedono ancora e devono incontrarsi, conoscersi e fare pace. Qui, anche I giovani devono darci una mano; bisogna trovare una casa ai Lares. Le domande di ieri con le risposte di oggi, di coloro che hanno 15, 20, 30 anni. Loro, più e prima di tutti, hanno diritto di chiedere ai Pastori della chiesa, agli statisti della politica, ai maestri della scuola e università, chiedere di essere uomini contro il tempo, figure solitarie, egrege, non gregarie, fuori moda. Ci domandano di avere il morso del tempo, ci domandano di preferire la verità alla consolazione e che come tanti Mosè, questi pastori, statisti, maestri abbiano il senso del destino individuale collettivo dei loro fedeli, dei loro cittadini e dei loro giovani, per condurli fuori dal deserto.

Seneca: c'era una volta il tempo
Seneca: c'era una volta il tempo
Seneca: c'era una volta il tempo

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